solitude

La campana dimenticata




Tanto, tanto tempo fa, un pio eremita decise di costruire il suo eremo in un verde prato nel bel mezzo della foresta. Appresa la notizia, i contadini e i fattori del villaggio vicino andarono da lui e lo aiutarono ad erigere ed arredare la sua capanna.

Prossima alla dimora dell'eremita c'era una cappella con una Madonna Addolorata e sopra di essa, sotto un piccolo tetto, una campana che l'eremita prese l'abitudine di suonare ad alcune ore. Questa era l'occupazione piú importante della sua giornata, il resto del tempo lo trascorreva in preghiera e meditazione.
Si dissetava ad una fresca sorgente sgorgata dalla terra accanto alla capanna e placava i morsi della fame con i frutti del bosco e il cibo che i contadini gli offrivano. Visse cosí per un lungo susseguirsi di anni finché un giorno si sdraió sul giaciglio di paglia, si avvolse nel mantello e spiró .
Tante lacrime furono versate sul luogo della sua sepoltura e le donne singhiozzavano: "Non avremo mai piú un pio eremita come lui!". E a questo proposito, avevano ragione.

In seguito accadde che, subito dopo la morte del pio eremita, ne arrivó un altro che si stabilí nell'eremo deserto. Le donne lo accolsero piuttosto bene: era giovane e aveva un paio di occhi neri come carboni ardenti, ma per gli uomini era come un pugno in un occhio, anche perché non si sapeva niente di lui.
In breve, i contadini un giorno si radunarono e lo cacciarono dalla capanna.
Egli voltó le spalle a quegli ingrati individui e da allora nessuno piú lo vide nella regione.

Da quel momento l'eremo rimase abbandonato e solo occasionalmente qualche cacciatore errante o una fanciulla con la sua brocca si trovavano a passare di lí per ristorarsi alla vicina sorgente.
Il muschio invase lussureggiante il tetto di paglia della capanna e rovi e clematide crebbero attorno alla porta e alle finestre, quello che era stato il giaciglio dell'eremita divenne il rifugio dei piccoli topi di campagna e nella cappella un codirosso costruí il suo nido: la foresta, con le sue creature, stava gradualmente riprendendo possesso del luogo che l'uomo le aveva sottratto.

La Primavera stava quasi per fare la sua apparizione e la terra era pronta per la festa di Pasqua.

Con le sue ali umide il vento del disgelo veniva avanti attraverso il mare e scuoteva gli alberi, facendo cadere pigne e rami secchi sul terreno, le sorgenti e i ruscelli mormoravano piú forte e il loro corso era diventato piú impetuoso, le punte dei bucaneve e degli anemoni facevano capolino furtivamente dal terreno nei boschi e l'alloro selvatico cominciava a mostrare il suo appariscente abito di seta scarlatta.
Poi venne l'upupa con la sua cresta dai colori brillanti e annunció l'arrivo del cuculo. E i rovi, scossa via l'ultima foglia secca, rimasero lí pronti, con le loro gemme rigonfie, ad aspettare pazientemente il risveglio della primavera.

La piccola campana della cappella abbandonata nella foresta, vide con dolore come ogni cosa si stava preparando per la festa della Risurrezione.
Negli anni passati, quando il suono delle campane si spandeva nell'aria di Pasqua, anche lei aveva innalzato la sua voce ed aveva cantato nel coro delle orgogliose sorelle dei campanili. Ma era stato tanto tempo fa: da quando il vecchio eremita era stato sepolto, non c'era stata nessuna mano a tirare la sua cordicella. Silenziosa e dimenticata, era rimasta appesa sotto il suo piccolo tetto, e per una campana nulla é piú triste che essere costretta a tacere nella festa della Risurrezione.

Arrivó la settimana della passione.

Il mercoledí una lepre giunse al limitare della foresta, si fermó davanti alla cappella ritta sulle zampe posteriori, e si rivolse alla campana: "Se avete qualcosa da fare in paese ditemelo pure, perché sono di strada. Sono stata nominata lepre di Pasqua e ho tanto di quel lavoro da fare che non so piú dove ho la testa!"
La campana addolorata rimase in silenzio e la lepre se ne andó .

La notte seguente ci fu un ruggito possente nell'aria. Le rose si acquattarono nel sottobosco, pensando che fosse un cacciatore che attraversava la foresta, invece non era quel demonio, ma tutte le campane dei dintorni che andavano a chiedere la benedizione del Papa a Roma.
La campana del convento sul monte si avvicinó alla cappella nel bosco e si fermó un momento. "Com'é , sorella, che non vieni?" chiese alla campana dimenticata.
"Ah, io lo farei volentieri" lamentó la piccola campana, "ma sono stata inattiva un anno intero, quindi non oso venire con voi. Peró , se mi vuol fare un favore, dica una buona parola al Santo Padre a Roma per me. Forse manderá qualcuno che mi aiuti a suonare la domenica di Pasqua. É cosí triste dover stare in silenzio quando tutti cantano. Mi fará questa gentilezza?"
La campana del convento borbottó qualcosa come "non possumus", poi si alzó come un grande, goffo uccello dal suolo e riprese il volo dietro alle altre e la piccola campana rimase purtroppo dimenticata.

"Ringrazia che gli esseri umani ti lascino in pace." disse un gufo alla campana. "Le stupide bestie del bosco non capiscono nulla dei tuoi rintocchi e inoltre disturberesti la mia meditazione. Peró non sarai del tutto abbandonata, perché sto per costruire il mio nido qui, vicino a te. E ci guadagnerai, perché io sono uno dal quale si puó imparare molto."
Cosí parló il gufo, sbuffando, ma la campana non gli diede risposta.

La mattina di Pasqua era ormai vicina.

Il crepuscolo si attardava sul villaggio e la nebbia si stendeva sui pendii. Un vento fresco soffiava attraverso i rami degli alberi, agitava i bianchi gigli di campo e frusciava attraverso le canne secche, che risuonavano come i toni bassi di un'arpa.
Poi, le cime della montagna si colorarono di rosso e gli abeti scricchiolarono e scossero i rami come se stessero svegliandosi dal sonno. Il sole coloró di rosa e oro le cime degli alberi e gli uccelli agitarono le ali, alzarono la voce e cantarono le loro canzoni pasquali.
Ma la campana dimenticata rimase appesa, triste e silenziosa, sotto il tetto della cappella.

Nello stesso momento, un giovane stava camminando lungo la strada che attraversava la foresta. Indossava una giacca di cuoio da cacciatore e la penna di un falco grigio sul cappello. Al fianco sinistro portava appeso un largo coltello da caccia, con il manico ricavato dal corno di un cervo maschio, non aveva armi da fuoco, ma uno zaino pieno zeppo di pelli di tasso.
Questo e un bastone di ferro che dondolava nella mano destra, facevano supporre che non fosse di ritorno da una battuta di caccia ma che stesse facendo un viaggio, e cosí era, infatti.

Giunto che fu ad una deviazione che portava ad un mulino un po' discosto dalla strada, il giovane si fermó, indeciso se proseguire o prendere il sentiero che vi conduceva attraverso i prati. Non indugió a lungo e dopo aver dato una lunga, disperata occhiata al mulino, gettó fieramente indietro la testa e lanció un alto grido di caccia, che le abetaie risuonarono, quindi cantó :

"Addio, casa nella foresta verde e gioiosa, ti devo lasciare,
per tutto il mondo in cerca di fortuna, son stanco di vagare.
Gran gioia ho colto nel cacciare il nobil cervo,
ora il destino mi conduce dove io stesso la morte dovró affrontare.

Incatenato su un'alta vetta da un sortilegio malvagio,
torvo ed angosciato, triste notte e giorno, c'era un falco grigio.
Rinunció a tutti i suoi beni per la libertá.
Vola su in alto, uccello selvaggio, dischiudi le tue nobili ali."


Ma le ultime parole gli si strozzarono in gola e terminó il suo canto con un profondo sospiro poi, improvvisamente, lasció la strada maestra e attraversó la foresta, diretto all'eremo abbandonato. Accanto alla sorgente si chinó per riempire d'acqua fresca una tazza di legno. Bevve lentamente e spruzzó le ultime gocce sul muschio.
"Bene", disse, "ora é tutto finito."
L'acqua era limpida e fresca, ma non serví a raffreddargli il sangue nelle vene: sedette sulla soglia dell'eremo e si coprí il volto con entrambe le mani.

L'estate precedente, dopo una lunga assenza, era tornato al paese, al servizio di un vecchio contadino.
Aveva girato il mondo. Al seguito dell'imperatore aveva inseguito il camoscio e lo stambecco in alta montagna, aveva accompagnato il suo padrone in allegre battute di caccia e nella sua splendida residenza della capitale, ma dovunque andasse, portava nel cuore il suo amore per la bionda figlia del mugnaio, figlia della sua valle natia.
Era tornato con una generosa somma di denaro e molte dolci speranze, ma i suoi sogni erano stati delusi ed era sul punto di lasciare il paese per arruolarsi.

Ora si trovava proprio vicino all'eremo nella foresta dove aveva incontrato la sua amata per la prima volta dopo la loro separazione. Lei era venuta ad attingere l'acqua e quando il cacciatore aveva riconosciuto la bella sagoma slanciata di colei di cui si era innamorato, la sua gioia era stata cosí grande che era balzato dal suo nascondiglio con un urlo selvaggio e le era corso incontro. Ma ella lo aveva spinto via, tanto che il giovane era caduto all'indietro, quindi aveva voltato le spalle e si era allontanata in fretta.

Durante la festa del raccolto, il giovane aveva tentato ancora una volta di avvicinare la ragazza, andandole incontro con un sorriso amichevole ed un mazzolino di garofani rosa, ma quando lo aveva visto venire avanti, lei si era voltata ed era tornata al mulino di suo padre.
Il giovane cacciatore, preso dalla rabbia, aveva gettato il mazzolino di garofani nel ruscello e non si era nemmeno accorto che una domestica l'aveva raccolto, asciugato e appuntato sul petto.
Era cosí arrabbiato, che la cattiveria prese il sopravvento su di lui. "Se lei va a sinistra, io andró a destra", disse, e perché la ragazza non pensasse che stava soffrendo per il suo amore, si uní ad una compagnia di individui scapestrati, bevve, cantó , fece pazzie, tanto che presto il suo nome fu sulla bocca di tutti per almeno sette miglia all'intorno.

Passó un intero inverno.

Una sera, una brillante luce a forma di spada fu avvistata in cielo e subito dopo arrivó la notizia che in primavera sarebbe scoppiata una guerra. Non passó molto tempo che il rullo dei tamburi invase il paese e le strade brulicarono di uomini in viaggio per arruolarsi nell'esercito imperiale.
Il giovane cacciatore lasció il suo lavoro di guardaboschi, offrí una generosa bevuta ai suoi compagni di avventure e si mise in cammino per andare a dimenticare sul campo di battaglia il dolore e l'angoscia.
Ora era giá abbastanza lontano, presso l'eremo nella foresta e stava seduto sulla soglia di pietra tenendosi malinconicamente la testa fra le mani.

Un fruscio lieve, lontano nel sottobosco gli giunse ad un tratto all'orecchio. Il cacciatore che era in lui si mise all'erta ed il suoi occhi acuti cercarono all'intorno la causa di quel suono.
Fra i tronchi degli abeti si muoveva qualcosa di leggero, come le vesti di una donna ed il cacciatore scivoló silenziosamente, ma con un gran batticuore, dietro al muro della casa, per vedere colei che inutilmente desiderava dimenticare.

La fanciulla si avvicinava camminando lentamente: ogni tanto si chinava per aggiungere un fiore al mazzolino che teneva in mano ed ogni volta le sue lunghe trecce bionde cadevano in avanti fin quasi a toccare il suolo. Quando raggiunse il ruscello, mise un po' d'acqua nella brocca di terracotta e vi sistemó il mazzolino di fiori, poi entró nella cappella, mise i fiori davanti all'immagine della Vergine e si inginocchió sul pavimento coperto di muschio.
A bassa voce ripeté il saluto dell'Angelo e poi aprí il suo cuore alla Regina del cielo: la sua era una preghiera piena di pentimento.

"L'ho allontanato da me, scacciato in pericolo di morte e ancora lo amo! L'ho piú caro che la luce dei miei occhi! Ci sarebbe ancora tempo per cambiar tutto con una parola, se sapessi che lui mi ama.
Pasqua é tempo di miracoli, dammi, oh cielo, un segno, se ancora pensa a me con amore e fedeltá e io lo cercheró fino alla fine del mondo per riportarlo indietro. Dammi un segno!"

In quel mentre, sopra la sua voce, udí un suono di campanella. Era stato solo un unico tocco, ma risuonó attraverso il cuore della fanciulla disperata come un canto gioioso. Sollevó gli occhi a guardare la Madonna e la campana suonó per la seconda volta, piú forte e piú gioiosa e quando la fanciulla si voltó, all'ingresso della cappella vide il giovane cacciatore.
Egli le andó incontro e la prese fra le braccia, e questa volta lei non scappó via.

Le cince e gli uccelli dalla cresta dorata che vivevano sui rami degli abeti si misero in agitazione ed il toporagno mise fuori la testa dalla porta di casa e tutti guardavano incuriositi la coppia nella cappella. I due rimasero abbracciati a lungo, poi il giovane afferró la corda della campana e gridó :
"Campanella che ci hai riportati insieme ora annuncia la nostra gioia a tutta la foresta!"
E la piccola campana sotto il tetto della cappella, cominció a splendere di gioia nella calda luce del sole e a dondolare accanitamente avanti e indietro, spandendo il suo canto cristallino attraverso la foresta.

Dalle torri dei villaggi circostanti arrivavano i suoni delle campane di chiese famose; erano tornate la notte prima dalla loro visita a Roma ed avevano visto molte cose meravigliose, ma nessuna di loro cantó la sua canzone di Pasqua cosí gioiosamente come la piccola campana dimenticata della foresta.





Traduzione personale

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