Racconti di Natale

UNA TAZZA DI TÈ DI NATALE



Il ceppo era nel camino, pronto per essere bruciato. Finalmente l’annuale corsa natalizia era terminata; gli auguri erano stati spediti, tutti i doni erano sotto l’albero e avevo trenta giorni di tregua, prima che il signor VISA venisse a cercarmi, però, anche se potevo ritenermi soddisfatto, l’impressione che qualcosa non andasse per il verso giusto non mi abbandonava.

Una settimana prima avevo ricevuto una lettera della mia vecchia prozia che diceva: “Naturalmente ti capisco se non puoi, ma se scopri di avere un po' di tempo, sarebbe meraviglioso se potessimo chiacchierare e sorseggiare insieme una tazza di tè di Natale.”

Aveva avuto un lieve ictus che le aveva colpito la parte sinistra del corpo, ma anche se era costretta in casa, i parenti mi avevano detto che il suo orgoglio non ne era rimasto ferito e avevano aggiunto: ”Le piacerebbe vederti. Sarebbe bello se andassi a trovarla, magari a bere una tazza di te di Natale.”

Ma ragazzi! Io non volevo andarci a trovare una vecchia parente e a vedere come se ne stava andando sempre più in declino!
Me la volevo ricordare com’era: vigorosa, divertente, brillante; mi ricordavo ancora quando ci intratteneva la vigilia di Natale fino a mezzanotte!
Non volevo rischiare. Non volevo soffrire. Non avevo bisogno di deprimermi. Non volevo stressarmi.
E poi, mio fratello? Perché non lui? Era anche sua zia!

Cercavo di giustificarmi, ma sapevo già dall’inizio che quelle che mi ero faticosamente inventato non erano valide ragioni per non andarci, se non volevo essere sommerso dalla pioggia acida della colpa.
Indossai stivali, guanti e cappello, con la vergogna che mi stillava da ogni poro e armato di tergivetro e mappa, uscii di casa.

Dalla periferia mi avviai verso la parte più vecchia della città, dove i colori pastello delle case nuove lasciano il posto al grigio e al marrone.
Quando l’auto accostò e si fermò accanto alla casa di legno che conservava la tazza di Natale, avevo la sensazione di essere…incorporeo.

Come arrivai fino alla porta davvero non saprei dirlo! Guardai la mia mano alzarsi e premere il pulsante del campanello. Aspettai, andando avanti e indietro per sciogliere il nervosismo e nel preciso momento in cui stavo pensando che avrei fatto bene a voltarmi e andarmene, sentii il tintinnio delle cineserie nell’armadio contro il muro.
Il triplo battere di due piedi e una stampella si avvicinò. Il clic della chiave, lo scorrere del chiavistello e la porta un po’ gonfia si aprì con un sobbalzo dopo una breve lotta.

Lei era là, piccola e pallida, fragile come un uovo.

Mi imposi di non guardare l’apparecchio che le sosteneva la gamba, e sebbene gli spessi occhiali bifocali sembrassero rompere e allargare i suoi occhi, la loro profondità lattea e rifratta si accese con giovanile sorpresa.
Entra! Entra! risero le sue parole, mi prese per mano e tutte le mie paure si dissolsero al suo comando.

Entrammo e prima che io sapessi come reagire, davanti ai miei occhi e orecchi e naso i Natali passati erano lì vivi, intatti!

Il profumo di arance candite, di cannella e pino, gli antichi soldatini di legno nella loro divisa militare, la Natività di porcellana che io avevo amato sempre così tanto, il servizio di Dresda ed i cristalli che io non potevo toccare.

Il mio spirito si sentì come un bambino all’uscita di scuola e si mise a danzare fra gli ornamenti di vetro.
Come per magia avevo di nuovo sei anni, sprofondato in un incantesimo di Natale, immerso in un milione di ricordi che il bambino dentro di me conosceva bene.
Fra le vecchie cartoline di Natale amorevolmente disposte, al posto d’onore c’erano quelle che avevamo fatto noi bambini. E là, al centro, la sua sedia a dondolo, il centro di tutto.

La prozia era in piedi e mi stava dicendo quanto era bello che fossi venuto a trovarla. Sedetti e cominciai a blaterare del tempo e dell’influenza. Lei ascoltò con molta pazienza e poi chiese: “Cosa c’è di nuovo?”

Pensieri e parole cominciarono a fluire. Cominciai a ritrovare il senso e persi l’allegria fasulla che uso quando sono teso. Lei si interessò appassionatamente di tutto quello che facevo. Era positiva. Incoraggiante. Come quando ero bambino.
Le semplici generalizzazioni non le bastavano, voleva lo specifico. I particolari.

Parlammo delle limitazioni che aveva dovuto affrontare e lei ne parlò con franchezza assoluta e con umorismo e grazia. Poi sfidando la realtà della stampella e raddrizzando il ginocchio, sulle ali dell'ospitalità volò a preparare il tè.

Ero solo, con sentimenti che non provavo da anni. Guardai attorno a me il Natale, attraverso un fitto, caldo velo di lacrime e le candele e l'agrifoglio che lei aveva sistemato su ogni mensola e i biscotti incredibilmente buoni che in qualche modo cuoceva ancora nel forno.

Ma questi ricordi ricchi e tattili, diventarono pallidi e inconsistenti, al confronto del Natale che la mia prozia conservava in se stessa. Il suo corpo era ridotto della metà e quasi esaurito, ma in lei vedevo tutto il miracolo del Natale, il trionfo di un'anima.

Il triplice battito di due piedi e una stampella arrivò dal corridoio con il tintinnio delle cineserie nell’armadio contro il muro. Versò due tazze, sorrise e me ne porse una e decidemmo che sarei tornato ancora, per una tazza di tè di Natale.

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