Busto Arsizio

La Gioeübia 2008

Come ho già avuto occasione di scrivere, ogni ultimo giovedì di gennaio qui da noi è tempo di Gioeübia, che si pronuncia Giobia con la "o" strettissima.

Il nome sembra che derivi dal latino, Qualcuno me l'ha anche spiegato ma fra genitivi, aggettivi, sostantivi, maschili e femminili...mi sono persa a metà. Comunque non importa, mi basta sapere che deriva dal sostantivo "Giove" che qualcosa a che vedere con il giovedì deve avercelo per forza.
In questo periodo le tradizioni dei falò sono tantissime in tutta Italia ( i falò di Sant'Antonio, per esempio) ma la Gioeübia ce l'abbiamo solo noi!

Nata come un'occasione per stare insieme con i familiari e consumare una cena di lusso, con il salamino cotto nella brace e nella cenere del camino, o povera, con il "saracu" , specie di aringa affumicata che veniva sospesa sopra la tavola e "accarezzata" con fette di "pangialdu", pane misto di frumento e granturco, che così ne assorbiva il sapore, col tempo è forse cambiata un po', ma è sempre l'occasione per ritrovarsi e fare festa a cena fra parenti, amici e conoscenti.
La Gioeübia del giorno d'oggi ha tante sorelle, infatti varie associazioni preparano ogni anno il proprio fantoccio ed ogni fantoccio serve anche per comunicare ai cittadini un certo messaggio.

Questa vecchina, che è proprio la Gioeübia classica, sta andando a cercare un po' di verde, via dalla città soffocata dalle costruzioni. In effetti da un po' tempo Busto è diventata un unico cantiere!!





E non solo cantieri ma....tanto tanto inquinamento atmosferico!! E allora: abbasso l'auto viva il "biciclo"!!





L'inquinamento non c'era "i tempi indrè", quando, quasi in ogni cascina, si allevavano i bachi da seta!




I BÜGÁTI

ovvero: L'ALLEVAMENTO DEI BACHI DA SETA
dal volantino edito da ul cuarantacenchi in occasione della Gioeübia 2008

Il 24 aprile si compravano le uova (suménza) dai padroni o dai loro agenti (bügatè) ad once in cartocci, o i ditali (didá). Il padrone o il campascö (il fattore) andavano prima nelle case a controllare se tutto era a posto, soprattutto il calore. L'avviso per la distribuzione veniva fatto anche in Chiesa dal prete, ma tutti sapevano giá che il 24 aprile, San Giorgio:

A San Giòrgiu, a sa mèti a suménza al còldu.

All'inizio di questa coltura così importante per l'economia familiare, tante erano le precauzioni da prendere e di conseguenza tante erano le usanze per invocare anche la protezione del cielo.
Le donne facevano benedire la semente e in tempi antichi andavano in processione (quando le Rogazioni coincidevano con quei giorni) portando sotto le ascelle i cartocci.

A Busto di usava anche far benedire la carta che si stendeva sulle tavole su cui si ponevano i piccolo bachi appena usciti dalle uova. Questa carta veniva venduta a quinterni, con l'immagine della Madonna dell'Aiuto sul primo foglio.

Prima di procedere alla covatura, si stendeva la semente su di un piatto e vi si soffiava sopra leggermente per far volare via i semi piú leggeri che avrebbero dato scarsa resa.Si procedeva poi alla covatura che durava 2 o 3 settimane.
In questo periodo la temperatura doveva essere moderata e costante e anticamente si mettevano i semi in una pezzuola e si tenevano durante il giorno sotto le ascelle e di notte nel letto. Poi, per ragioni igieniche, si passò a tenerli nella apposita stanza con un fornello acceso, usando per il primo fuoco una scheggia del sciòcu da Natal, il ceppo benedetto di Natale.

Dopo alcuni giorni di covatura, qualcosa si muoveva e allora si facevano salire i piccoli bachi su di una carta velina bucherellata (per non toccarli tanto erano fragili e anche per separare i brucolini che, affamati, salivano attraverso i forellini, dalle uova ancora chiuse che venivano riposte ancora al caldo).
I piccoli bachi venivano messi in una scatola e sopra vi si spargeva foglia di gelso tagliata finissima. Man mano che crescevano, venivano trasferiti su graticci su cui era stesa della carta ruvida (palpé). Questo tavolato era il campu (piantá ul campu) e si arrivava ad avere anche 48 tavolati.

Quando i bachi cominciavano a svilupparsi, cominciava per la famiglia il maggior lavoro.
Dopo una settimana avveniva la prima delle quattro mute (müda o dòrma), intervallate di qualche giorno, della durata da uno a due giorni. Durante queste mute, i bachi cadevano in uno stato di apparente torpore (durmì daa quarta, deriva da questo sonno del baco). Tutta la famiglia (teniamo presente che si era lasciato il posto migliore dell'abitazione per i bachi) doveva impegnarsi notevolmente per la raccolta delle foglie di gelso.

Si diceva andá a fóia, andare a raccogliere le foglie, senza specificare che tipo, perché la fóia, indicava la piú importante, quella del gelso; le altre quasi non contavano e avevano bisogno della specificazione; a fóia dul pèrsigu, a fóia di rubén ecc.
Va tenuto presente che, per un'oncia di semente che dava 75 o 85 chili di bozzoli, occorrevano oltre 1000 chili di foglia; dai 5 chili della prima dòrma si arrivava agli oltre 700 chili della quarta muta.

I gelsi erano piantati a 10 metri di distanza l'uno dall'altro e venivano potati a zero ( i u gabeán) in modo tale che si formassero poi tanti rami diritti che, una volta piegati, entravano facilmente nel sàcu cont'ul börgiu, sacco con il cerchio di ferro sull'apertura, per tenerla larga. Il sacco si appendeva al gelso cont'ul rampén e così si potevano staccare facilmente le foglie.
All'inizio i bachi consumavano una quantitá di foglie limitata, piccoli strati rinnovati però anche nove volte al giorno. Dopo otto giorni, alla quarta dormita, lo sviluppo raggiungeva il colmo e occorreva dare uno strato di foglie alto una spanna, quattro volte al giorno iniziando alle 4 del mattino.

Era un brusìo continuo. Le foglie dovevano essere ben asciutte, se bagnate si facevano asciugare sut'al pòrtigu stendendole fra carte e panni. Dai tavolati bisognava poi rimuovere gli avanzi e gli escrementi, per mantenere sempre puliti i graticci.
Alla fine i bachi, diventati color argento o oro lucido, cominciavano a far uscire dalla bocca filamenti di seta.
Era il momento di mandarli al bosco, cioé farli arrampicare su ramoscelli di erica (brügu), su steli di ravizzone (raatòn) o di fagioli (fasö). Prima però si pulivano gli ultimi avanzi delle foglie e si lasciavano poi arrampicare, aiutando quelli che non ci riuscivano.
Sul bosco i bachi rimanevano appoggiati sulla parte posteriore, come cavalieri in sella, da cui il nome cavalér. Con la parte anteriore si muovevano cominciando ad avvolgersi nel bozzolo (galèta) con i fili di seta che uscivano dalla bocca.

Capitava che qualche baco ad un certo punto non facesse più seta; erano chiamati schiscèti e, se non erano diventati neri, si recuperavano vendendoli alla famiglia dei Galèti di Busto che, con un procedimento in acqua bollente, riuscivano ad ottenere una seta di seconda scelta che poi consegnavano alle filande.

L'operazione del bosco era conclusa dopo 8 giorni, ed a quel punto i bozzoli pendevano immobili dai rami. Tranne alcuni che venivano messi da parte per la semenza dell'anno dopo (sviluppo della farfalla), gli altri venivano esposti subito al sole o messi nel forno del pane, chiusi in sacchi, per far morire il baco, altrimenti la farfalla che se ne sviluppava, per uscire forava il bozzolo e la seta non era più utilizzabile. Quindi i bozzoli venivano staccati dai rami e consegnati ai Bügaté che li portavano alle filande.
A Busto erano ad esempio i Bellotti di Via Cairoli che li raccoglievano e in gran parte andavano alla filanda di Magnago.



La Gioeubia serve anche a lanciare messaggi più forti, come questo della Lega Anti Vivisezione



e politici, come l'affare Alitalia e la crisi della "monnezza".


E' un vero peccato che il loro destino sia quello di finire al rogo!!